giovedì 30 ottobre 2008

Bistecche 4 — Un risveglio 2

Non ho insegnato al computer né a impazzire per la carne, né la poesia della bistecca.
Lo scienziato Seth Brundle (Jeff Goldblum) ne La mosca (David Cronenberg, 1986).

mercoledì 29 ottobre 2008

Dacci un Taglio

Ho incontrato un’amica di Mimì, Judith. Non fa più la vita e ha una gelateria. Non era contenta di vedermi, ma dato che sono sempre stato very british ho finto di non capire. “Solo panna!” ho ordinato. Mentre mi serviva si è messa a parlare di Mimì, “quella disgraziata che non ha mai avuto la testa sulle spalle, che andava pure coi neri”, cose così. L’ho presa da dietro, a pecorina, per essere esatti, con quell’ostinato rigore che mi caratterizza.
João de Deus (João César Monteiro) in Ricordi della casa gialla (João César Monteiro, 1989).

martedì 28 ottobre 2008

Dacci un Taglio

Chi ha buttato un intero carico di caramelle effervescenti nella piscina durante la gara di nuoto? Chi ha infilato cadaveri della scuola di medicina tra gli alunni del refettorio? A ogni festa di Halloween, gli alberi del campus sono coperti di mutande. A ogni primavera esplodono i cessi!
Tutto merito del gruppo Delta. Ma Dean Wormer (John Vernon), rettore del Faber College, non gradisce rivoluzioni situazioniste in Animal House (John Landis, 1978).

lunedì 27 ottobre 2008

En attendant vavavuma ovvero Two-Lane Blacktop is the picture

Performance and image, that's what it's all about.
G.T.O. (Warren Oates) in Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop, 1971) di Monte Hellman.

Nei primi cinque anni del ventunesimo secolo, il cinema attraversò la più grave crisi d'idee della sua storia. Anche se che io sappia se ne accorsero in pochissimi e non credo se ne sia parlato granché. Forse perché identificarne e descriverne i motivi era un'operazione complessa e avrebbe richiesto troppo tempo. E comunque non ha il benché minimo interesse e non importa assolutamente nulla a nessuno, il che a ben pensarci potrebbe essere una causa non minore della suddetta crisi.
Ma non stiamo a parlar di crisicriticadellacriticacinematografica (d'ora in poi solo cri.cri.cri.) perché questo blog ha difetti d'elocuzione e gli scioglilingua sono controindicati. Volevo solo dire che una delle pochissime emozioni cinematografiche provate in quel quinquennio disperante è stata la visione di Strada a doppia corsia, che infatti non fu girato nel 2001 ma trent'anni prima, nell'anno in cui nacqui, anche se la coincidenza è del tutto priva di senso. Il film è diretto da uno strano signore che si chiama Monte Hellman, senza il quale Tarantino starebbe ancora a fare il cassettaro in periferia (Hellman produsse Reservoir Dogs, e dire che il miglior film di Quentin, A prova di morte, è un gigantesco omaggio al film di cui stiamo parlando è quasi un eufemismo).
Ricordo che lo vidi in un cinema parigino che si chiama "L'Harlequin". Prima della caduta del Muro di Berlino, si chiamava "Le Cosmos" e proiettava solo film sovietici. Ma a parte il nome e una riverniciatura, la sala principale è rimasta immutata nelle sue due principali caratteristiche: essere enorme, e sempre deserta. È la sala ideale per scoprire Strada a doppia corsia.


Leggo sul Mereghetti: "Senza le ruffianerie e il folclore di Easy Rider e di Punto zero, uno spaccato dell'America come terra di nessuno che ha retto bene all'usura del tempo. I personaggi non hanno nomi, non hanno interessi al di fuori delle macchine, si parlano a malapena (a parte Gto, che inventa storie a ruota libera): il road movie diventa un'agghiacciante metafora di solitudine e di vuoto esistenziale".
Io adoro il Mereghetti. E non solo perché non dimentica mai di dire se in tale film l'attrice protagonista si vede nuda, fin dove e per quanto tempo. Quindi non voglio parlar male di lui, come non ho intenzione di essere il grillo parlante che fa cri.cri.cri. Però stavolta delle due l'una: a) Mereghetti non ha mai visto Strada a doppia corsia; b) lo ha visto, ma nell'anno in cui nacqui, e non se lo ricorda più. Perché quando esci dalla proiezione di Strada a doppia corsia, la prima cosa a cui pensi non è che hai appena assistito a una metafora, quale essa sia. Per non parlare di concetti densi di significati come "solitudine" e "vuoto esistenziale". No. Quando esci dalla proiezione di Strada a doppia corsia, la prima cosa a cui pensi è che al confronto Samuel Beckett era un autore decisamente verboso, con troppe cose da dire e milioni di laboriose metafore. En attendant Godot, di cui Hellman pare abbia realizzato la prima messinscena teatrale negli USA, sta a Strada a doppia corsia come I miserabili di Hugo sta a un libro di venti pagine bianche.
La faccio breve. Tre motivi per amare questo film. E poi anche un quarto, se fai il bravo.
1) In Strada a doppia corsia c'è Warren Oates. Un film con Warren Oates è automaticamente un capolavoro. Warren Oates era una garanzia, sempre. Nella mia camera verde, Warren Oates ha uno spazio esclusivamente dedicato a lui, nella visitatissima "cappella Garcia". Appena entri, passata la seconda colonna a destra. Le donne incinte pagano il doppio, non siamo mica qui per mostrare le croste di Piero della Francesca a Monterchi.


2) In Strada a doppia corsia gli altri due protagonisti sono il cantautore James Taylor e il batterista dei Beach Boys, Dennis Wilson. Taylor interpreta "il Pilota". Guida l'automobile e non canta mai. In tutto il film dice quattro, cinque battute massimo. Per parlare di motori. Wilson interpreta "il Meccanico". Quando serve ripara l'automobile o ricarica la batteria. Ma non nel senso delle percussioni. In tutto il film dice una, due battute massimo. Per parlare di motori. Ciò (non) detto, Monte Hellman ha dichiarato più volte che l'idea del film gli è venuta ascoltando "Me and Bobby McGee" cantata da Kris Kristofferson. Cosa c'entri "Me and Bobby McGee" con Strada a doppia corsia lo sa solo Hellman, ma va bene lo stesso, infatti nel film a un certo punto puoi sentire la canzone trasmessa da una radiolina scassata. Su questo almeno siamo tutti d'accordo: Kris Kristofferson è il peggior cantante mai generato da ventre di donna. Tranne quando canta. E questo è un secondo motivo per amare Strada a doppia corsia.
3) In Strada a doppia corsia puoi vedere uno dei cinque più bei finali della storia del cinema.


Ora tu mi dirai okay, molto bello e interessante, ma permetti: invece di mettere una locandina in bianco e nero e due foto che una neanche viene dal film di cui stai parlando, perché non hai scelto un paio di scene tra le decine che si trovano su youtube?
Allora, prima di tutto non permetto.
Secondo: Strada a doppia corsia è uno dei rarissimi film che vale ancora la pena di vedere al cinema, su maxischermo, e in una sala completamente deserta, mica in tv o peggio ancora sul tuo pc. E questo è un quarto motivo per amare Strada a doppia corsia.

domenica 26 ottobre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XII — IL PEGGIOR STUPRO DELLA STORIA DEL CINEMA

Oggi è difficile, ma il solutore otterrà 4 (dico quattro) bomboloni.
Mercoledì allungherò la durata del filmato, ma la posta sarà dimezzata: 2 bomboloni.
Infine, venerdì il filmato sarà ancora più lungo. A quel punto, più che l'ultimo in città, sarà un gioco da ragazzi e quindi 1 solo bombolone.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio e possono essere consultate qui. Il gioco si svolge anche su un altro divano.

AGGIORNAMENTO (Mercoledì 29 ottobre): Ho aggiunto più di sei minuti al filmato e rivedendolo mi accorgo che sono stato incauto: la soluzione ora è evidente e 2 bomboloni sono persino troppi. Ciccia, ormai è fatta.



ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE ALLE 15.07.
LA VINCITRICE È BIANCA, CHE SI PORTA A CASA DUE BOMBOLONI, RITROVANDOSI IN TESTA ALLA GRADUATORIA.
EDWARD D. WOOD JR. È STATO DEFINITO "IL PEGGIOR REGISTA DELLA STORIA DEL CINEMA", PRIMATO CHE ALTRI POTREBBERO COMUNQUE RIVENDICARE, ANCHE SE È VERO CHE FILM QUALI PLAN 9 FROM OUTER SPACE O NIGHT OF THE GHOULS RAGGIUNGONO VETTE DI ESILARANTE NULLITÀ. MA LA SUA PRIMA OPERA, GLEN OR GLENDA (A VOLTE CHIAMATO ANCHE GLEN OR GLENDA?), CHE RACCONTA LA STORIA DI UN UOMO — INTERPRETATO DALLO STESSO WOOD — A CUI PIACE INDOSSARE I PULLOVER DI ANGORA, RESTA UN CASO A PARTE, SECONDO ME. PIÙ CHE PESSIMO, DIREI CHE È UN FILM DAVVERO STRANO. NELLA VOCE DEDICATA AL REGISTA E REDATTA DA KAREL THEIN PER L'ENCICLOPEDIA DEL CINEMA THREE PUPPY DOGS, LA CONCLUSIONE (SOLO PARZIALMENTE PUBBLICATA) AFFERMAVA QUANTO SEGUE: "LA GOFFAGGINE ATTRAVERSATA DA LAMPI DI UNA GRAZIA ILLOGICA DESTA UN SOSPETTO, CHE VA DRITTO AL CUORE DELLA PIÙ RADICALE MODERNITÀ: QUESTA MARGINALITÀ TRISTE E TUTTAVIA APPASSIONATA DI WOOD NON È FORSE UN RIFLESSO DELLA POSIZIONE DEL GENERE UMANO NELL'UNIVERSO TUTTO?".
MENTRE RIFLETTI SULLA TUA POSIZIONE NELL'UNIVERSO, GUARDATI L'INTERA SEQUENZA, CHE AVREI MOSTRATO VENERDÌ SE BIANCA NON AVESSE PRONTAMENTE AZZECCATO LA RISPOSTA. ALL'INIZIO, NON PERDERTI IL MONOLOGO STRACULT DI BELA LUGOSI CHE FARNETICA DI "DRAGHI VERDI", "CODE DI CAGNOLINI" E "GROSSI, GRASSI LUMACONI".
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 2 NOVEMBRE. UN GIOCO AUDIO, COME GIÀ SPERIMENTATO UN MESE FA. LA POSTA SARÀ DI DUE SESTERZI, CHE FORSE SI DIVIDERANNO DUE SOLUTORI.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA

bianca: 7 bomboloni.
arcomanno: 6 bomboloni.
andrea: 2 bomboloni.
desaparecida: 2 bomboloni.
adlimina: 1 bombolone.

sabato 25 ottobre 2008

Dacci un Taglio

La polizia del campo spiava perfino i sogni.
Voce narrante (Jean Négroni) de La Jetée (Chris Marker, 1962).

venerdì 24 ottobre 2008

Dacci un Taglio

Pandora. Sequenza da acquisire.
All’inizio del film, americani in un villaggio spagnolo in riva al mare. La sera li ritroviamo a una festa. Ava Gardner è al pianoforte. Un giovane con un bicchiere in mano le fa un’ennesima proposta di matrimonio. Lei rifiuta. Lui beve il bicchiere e dichiara agli astanti che al momento di morire un’unica idea lo consola: che non vedrà più le loro facce. Cade morto.
Vogliamo la sequenza del ricevimento, fino al suicidio incluso.
Lettera di Guy Debord ai produttori del suo In girum imus nocte et consumimur igni (1978).

giovedì 23 ottobre 2008

When you're smiling

i celebri e pallidi sorrisi
di Leonardo e Vermeer
dicono prima io
io
e dopo il mondo
Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, 3a — La Monnaie de l’absolu (1998).






mercoledì 22 ottobre 2008

Dacci un Taglio

— Com’è che ogni volta che lei apre bocca è per dire “pompinaro”, “coglione” o “vaffanculo”?
— Me lo faresti un favore?
— Vuole che vada a fare in culo.
— Ecco, bravo.
Earl Partridge (Jason Robards), morente, chiede un favore al suo infermiere Phil Parma (Philip Seymour Hoffman) in Magnolia (Paul Thomas Anderson, 1999).

martedì 21 ottobre 2008

Dacci un Taglio

Mentre è sacrosanto e benedetto ogni fatalismo relativo al passato (cioè la rassegnazione), il fatalismo riguardo al futuro è un concetto contraddittorio; infatti non si può non volere in ogni istante; il problema del fatalismo si riduce perciò in questi termini: dobbiamo volere quel che vogliamo noi, oppure volere quel che vogliono gli altri?
Vittorio Foa, 19 febbraio 1939.

lunedì 20 ottobre 2008

3 X 3: Saul, Bernard, Alfred.

Per me è un po' un'epifania: il leone su quell'insolito sfondo verdastro, il ruggito già coperto da un minaccioso rullo di tamburi, quella pioggia incrociata di verticali e diagonali, a simulare una misteriosa geometria della condizione umana, piuttosto uno schema di parole incrociate dove si incasellano i titoli di testa, anzi la facciata di un grattacielo. Avevo 12-13 anni, e forse il film rimase incastonato nella mia memoria perché quella sera mi ci portò mia madre (una sala dei "7 parnassiens"), l'indomani dovevo andare in colonia per un mese, e stavolta non c'era niente da fare, ero spacciato, come provavano le etichette col mio nome inesorabilmente cucite sui miei vestiti. Credevo che questo sarebbe stato l'ultimo film che avrei visto in vita mia, e probabilmente era vero (ma anche no).






Banalità in corpo minore. Qui si assiste a un doppio e incrociato movimento. Da una parte, Hitchcock realizza tre film e chiede ai complici Saul Bass e Bernard Herrmann di comporre titoli e musiche all'altezza dell'opera; dall'altra, lo spettatore assiste a una promessa fatta di sublimi astrazioni — suoni e figure geometrici — che Hitchcock dovrà mantenere, dandole corpo. L'operazione riesce, e si ottengono non tre capolavori, bensì tre manifestazioni divine (grazie alla trinità artigianale). Oggi forse succede ancora, ma di certo è alquanto raro.

domenica 19 ottobre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

XI — RITIRATA STRATEGICA

Con pazienza e vaselina l’elefante si scopò la formichina.
Tula (Kate Winslet) in Romance & Cigarettes (John Turturro, 2005).

Oggi ti concedo una pausa dello spirito. Inutile spremersi le meningi, stavolta: la soluzione del gioco vale solo una guallera d'oro, ma dato che è facilissima, non incazzarti come una formica.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio e possono essere consultate qui. Il gioco si svolge anche in un altro vespasiano.




ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA MARTEDÌ 21 OTTOBRE ALLE 11.55.
IL VINCITORE È IL TIGROTTO DI MOMPRACEM (CZ) ARCOMANNO, NUOVAMENTE IN TESTA ALLA GRADUATORIA: SARÀ DIFFICILE DIRGLI GIÙ LA TESTA, A QUESTO SUCKER.
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 26 OTTOBRE. STAVOLTA SARÀ DAVVERO DIFFICILE, TI AVVERTO. LA POSTA INIZIALE SARÀ DI 4 (SÌ, HO DETTO QUATTRO) BOMBOLONI. FORSE IM LAUF DER ZEIT CI SARANNO INDIZI, MA LA CREMA VERRÀ TOLTA DI CONSEGUENZA. CIAO CIAO E SCIÒN SCIÒN.


L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
arcomanno: 6 guallere d'oro.
bianca: 5
guallere d'oro.
andrea: 2 guallere d'oro.
desaparecida: 2 guallere d'oro.
adlimina: 1 guallera d'oro.

giovedì 16 ottobre 2008

Il secondo sarà Francisco Franco

Spagna/ Il giudice Garzon aprirà 19 fosse comuni della Guerra Civile. Anche quella di Lorca.
(fonte: www.asca.it)

Ero bambino e vivevo a Trastevere. Ricordo — stiamo parlando della seconda metà degli anni '70 — due scritte verniciate di bianco su due colonne di un palazzo moderno, nella stradina dove abitavo, che nessuno cancellò per molto tempo e che mi sono rimaste impresse, forse perché all'epoca non le capivo (i ricordi più vivi della mia infanzia sono proprio legati alla curiosità-terrore per tutto ciò che mi appariva misterioso: la serie televisiva Olocausto, il film 2001: Odissea nello spazio). Le scritte dicevano:

IL PRIMO È STATO CARRERO BLANCO
IL SECONDO SARÀ FRANCISCO FRANCO

(Anni dopo seppi che c'era un'altra scritta, me lo raccontarono, non ricordo di averla vista. Forse fu cancellata dopo pochi giorni. Ma sarebbe bastato andare due strade più avanti, e avrei letto che le Brigate Rosse volevano uccidere mia madre.)
Ripensandoci oggi, doveva apparirmi come un esempio di dadaismo (anche se all'epoca non conoscevo il dadaismo, ma Fonzie, Jeeg Robot d'acciaio e Capitan Harlock): la rima, e quel "Blanco" che veniva a ribadire il colore della vernice.
"Il primo è stato Carrero Blanco / Il secondo sarà Francisco Franco": un distico che mi resterà inchiodato in testa fino alla morte, alzheimer permettendo. Non una madeleine; piuttosto, un duende.

Agosto 2007: sono passati almeno trent'anni. Passeggio per le strade della mia infanzia. Vorrei portare una persona a vedere dove abitavo, quando avevo la sua età.
Ma poi a volte il tempo si ferma, come nel "Miracolo segreto" di Borges. Infatti:

martedì 14 ottobre 2008

Dacci un Taglio

— Potrei fare la cameriera, o altro.
— Non posso aiutarti. Ho già personale a sufficienza. E poi cominci a essere vecchia.
— Ma ho solo 38 anni.
— Lo vedi? Potresti cadere stecchita da un momento all’altro.
— Ma tu hai più di 50 anni.
— Per me è diverso. Io ho delle conoscenze.
La disoccupata Ilona (Kati Outinen) e il gestore di un ristorante (Esto Nikkari) in Nuvole in viaggio (Aki Kaurismäki, 1996).

lunedì 13 ottobre 2008

Ma non potevi lasciargli almeno il tempo di imparare, brutta stronza?

GUILLAUME DEPARDIEU, 07/04/1971 — 13/10/2008



Orson Welles for dummies

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HEARTS OF AGE, 1934
A soli diciannove anni, tra impegni teatrali ed esordi radiofonici, Welles cura un’edizione di Shakespeare e realizza il suo primo cortometraggio in 16 mm. Cinque minuti vagamente surrealisti: dalla valigetta del giovane mago, che si ritaglia la parte della Morte, escono maschere, pianoforti, scalinate. Saranno gli strumenti di futuri illusionismi in grande scala. E aspettando Rita Hayworth a Shanghai, il nostro chiude la prima moglie, Virginia Nicholson, in una bara.

THE WAR OF THE WORLDS, 1938
“CBS presenta Welles e il Mercury Theatre on The Air in un adattamento radiofonico da La guerra dei mondi di H.G. Wells.” Molti si perdono le parole del presentatore e 1.750.000 ascoltatori credono alla fine del mondo. Involontario emblema (e critica) dei mass-media. Per Welles sarà il più gran successo della sua vita.

QUARTO POTERE (CITIZEN KANE, 1941)
Nasce il cinema moderno: in due ore Welles stravolge struttura narrativa, tempi del racconto, tecniche di ripresa e montaggio. Come un Dio bambino che su una slitta scivola sulla propria creazione: grande come il mondo, piccola come una sfera di cristallo. Un capolavoro di sprezzatura, opera di un genio del Rinascimento nato per errore nel Wisconsin. La cinepresa è il giocattolo supremo e il vero protagonista, demiurgo mosso da un’ambizione smisurata (e consapevole del proprio scacco): raccontare la vita di un uomo. Un uomo americano.

L’ORGOGLIO DEGLI AMBERSON (THE MAGNIFICENT AMBERSONS, 1942)
Quarto potere finiva con una slitta bruciata; gli Amberson iniziano con un contrabasso sfasciato. La vita di Charles Foster Kane iniziava in una catapecchia e finiva in un castello; George Minafer Amberson è suo figlio, nel castello c’è nato; la sua vita sarà una lunga discesa. Profetica metafora del regista stesso, che molti anni dopo dirà “I started at the top and worked my way down”. Fuori tutto cambia, arriva la “carrozza senza cavallo”, ma gli Amberson si chiudono nella loro dimora, dove tra posate d’argento, scale e boiseries batte un cuore di tenebra. Nasce il cinema post mortem; il narratore allestisce danses macabres; Hollywood non glielo perdona, massacra il montaggio e manda al macero i negativi originali.

IT’S ALL TRUE (È TUTTO VERO) (IT'S ALL TRUE, 1942-1993)
Welles accetta di girare un documentario sul Brasile: l’errore della sua carriera. La RKO approfitta dell’assenza per massacrare gli Amberson. A Rio de Janeiro le riprese sono nel caos, un attore muore, le comunicazioni con gli USA sono ardue. Il film non esce. Parte del materiale è ritrovata da Bill Krohn e montata con M. Meisel e R. Wilson: immagini a volte sbalorditive, tra cui una processione funebre che prefigura l’inizio dell’Otello.

TERRORE SUL MAR NERO (JOURNEY INTO FEAR, 1943
)
“Welles e Del Rio insieme! Come l’Uomo Terrore contro la Donna Leopardo!” gridava lo slogan. Terza opera del contratto con la RKO: sebbene la regia di questo gradevolmente assurdo spy-movie sia firmata Norman Foster, Welles girò alcune scene e nell’insieme una sua soprintendenza è probabile. È un’esotica serie B, il cui basso costo avrebbe dovuto rimborsare il denaro perso da Quarto potere. Non andò così, ma la troupe del Mercury Theatre è quasi al completo, Welles è l’improbabile Colonnello Haki, capo dell’ovviamente feroce polizia segreta turca, tutti si divertono e noi con loro. Film così non se ne fanno più.

LO STRANIERO (THE STRANGER, 1946)
Welles vuole apparire agli occhi di Hollywood come un regista capace di rispettare tempi e preventivi. Il film risente dell’influenza dell’hitchcockiano L’ombra del dubbio, interpretato quattro anni prima dall’amico Joseph Cotten: in ambedue una tranquilla cittadina americana nasconde senza saperlo un mostro. Welles interpreta un criminale di guerra nazista smascherato da Edward G. Robinson: il Male si rivela nei lapsus, nei tic, riemerge come un’acidità di stomaco, si impossessa dell’uomo e lo dirige come fosse il diavolo nel campanile. Ma chi conta le ore ha le ore contate.

LA SIGNORA DI SHANGHAI (THE LADY FROM SHANGAI, 1948)
Il matrimonio con Rita Hayworth permise a Welles di tornare alla regia. Gilda era entrata nell’immaginario collettivo sfilandosi lunghi guanti di seta nera, ma a cristallizzare l’oggetto dei desideri era la lunga chioma rossa. Il marito la fece tagliare cortissima e la ossigenò. Rese la moglie una perfida assassina che abbindola un improbabile marinaio (Welles) in un noir dalla sceneggiatura pretestuosa e la lasciò morire da sola in una galleria di specchi infranti. Ancora una volta, il film subì pesanti tagli, ma alcune sequenze e soprattutto il finale sono da antologia. Hollywood non apprezzò, Rita nemmeno: doppio divorzio.

MACBETH, 1948
Welles riuscì a spillare una cifra irrisoria alla Republic Pictures, specializzata in serie B: dopo poche settimane di ripetizioni, girò il film in ventitré giorni. Il risultato sconcertò: i personaggi sono rivestiti di grezze pellicce e si muovono in una densa nebbia i cui vapori nascondono una scenografia di cartapesta, che più che a una reggia fa pensare alle grotte di Lascaux. Il testo shakespeariano si trasforma in dramma primordiale, cupo e brutale; Macbeth e la sua corte sembrano esseri pre-storici, armati di lance nodose come clave e soverchiati da forze ctonie.

IL TERZO UOMO (THE THIRD MAN, 1949)
Harry Lime è la migliore interpretazione e il massimo successo cinematografico di Welles, che nel 1951 resuscitò il truce ma simpatico trafficante in un ciclo di avventure scritte in buona parte da lui per la radio inglese. Dato per morto ma nominato continuamente, Lime appare improvvisamente a metà film, totalizzando sullo schermo una presenza di appena 5 minuti. Il capolavoro di Carol Reed vortica attorno a un’attesa che l’arrivo di Welles esalta, dalla gran ruota del Prater alle fogne viennesi. Per chi volesse vedere il vero Welles, senza trucco, questa pare sia l’unica occasione (anche se alcuni sospettano un naso finto).


OTELLO (OTHELLO, 1952)
Genio del montaggio, Welles sfrutta l’avventurosa eterogeneità delle riprese dando al film un ritmo rapidissimo. Non può più affidarsi alla fluidità del piano sequenza, ma a bruschi tagli di montaggio e inquadrature espressive, spesso oblique e dal basso. I dialoghi sono declamati a tutta velocità da attori che passano all’interno della stessa frase da uno sfondo di bifore veneziane a una fortificazione araba, da una scogliera a una reggia. Più che un adattamento, l’Otello secondo Welles è un incubo evocato da Shakespeare, e del sogno possiede l’ubiquità e il segreto rigore degli eventi, la cui successione obbedisce meno alla logica che a un movimento inesorabile di volti, pietre, luci.

"DON QUIXOTE", 1955-1973
Un progetto portato avanti girando il mondo con la cinepresa e impressionando pellicola quando le circostanze lo permettono. Welles non riuscirà a terminare l’opera, che ribattezzò When are you going to finish Don Quixote?: il più celebre di una lista preoccupante di film incompiuti. I materiali sparsi sono piuttosto deludenti; il montaggio del 1992, ad opera dell'aiuto regista Jesus Franco resta il più diffuso.

RAPPORTO CONFIDENZIALE (MR. ARKADIN / CONFIDENTIAL REPORT, 1955)
L’ubiquità come immagine del Potere. La storia di Arkadin era già stata scritta da Welles per una delle puntate radiofoniche di The Adventures of Harry Lime. Come Quarto potere, il film inizia dalla fine: un jet senza pilota né passeggeri vola alla deriva. Arkadin è ovunque e in nessun luogo, tutti e nessuno, colosso dal passato d’argilla. Appare e scompare, maschera carnevalesca tra Ensor e Goya, in Grecia, Spagna, Monaco, Parigi, Roma. Ma non riuscirà a salire sull’ultimo volo. Nel mondo moderno, non vi è più spazio per i giganti shakespeariani: troppo character. Se un tempo si era pronti a dare un regno per un cavallo, tutta la fortuna di Arkadin non basterà a procurargli un biglietto aereo.

L’INFERNALE QUINLAN (TOUCH OF EVIL, 1958)
Un ispettore razzista, corrotto e omicida, regna su una cittadina di frontiera tra Messico e Stati Uniti. Attraversa il film come un bolide impazzito, facendo tremare con la sua mole gigantesca bodegas che spacciano droga e tequila, commissariati da dittatura sudamericana e squallidi motel, vicoli oscuri e strade immerse nel sole abbacinante del deserto, succhiando caramelle e vomitando fiele, livore e odio. Un’insuperabile riflessione cinematografica sul Bene e il Male, con un ritmo incalzante che alterna lunghi piani sequenza e brevissime inquadrature, lampi di immagini violente e contrastate. Più che un film poliziesco, è un’allucinazione morale, e forse il capolavoro assoluto di Welles.

IL PROCESSO (LE PROCÈS, 1962)
Girato a Zagabria, Monaco, Roma e Parigi, dilata ed esaspera l’angoscia frammentaria di Otello. Gli spazi si affastellano come scatole cinesi: K. esce dalla sala del tribunale varcando una porta dalla maniglia a tre metri dal suolo, come nella biblioteca borgesiana percorre corridoi di archivi che sboccano su altri corridoi (gli uffici della Gare d’Orsay), finisce in una gabbia di legno, in una cattedrale barocca, all’EUR. Uno spazio-tempo concentrazionario, dove persino la vittima Anthony Perkins appare sgradevole, smarrita tra personaggi grotteschi interpretati da un cast eterogeneo, da Romy Schneider a Jeanne Moreau, da Akim Tamiroff a Elsa Martinelli, da Arnoldo Foà a Madeleine Robinson.

NELLA TERRA DI DON CHISCIOTTE, 1964
Documentari per la Rai tra Pamplona e Siviglia, bevendo Jerez a ritmo di flamenco. Nella vita Welles fu il massimo rappresentante moderno della sprezzatura rinascimentale. Non girava il mondo: lo divorava. La mitologica stazza raggiunta nell’ultimo ventennio di vita testimonia dell’ingordigia: nella cavernosa risata del titano finivano piatti succulenti, cattedrali, mulini a vento.

FALSTAFF (CAMPANADAS A MEDIANOCHE / CHIMES AT MIDNIGHT, 1966)
Come L'orgoglio degli Amberson, anche Falstaff racconta la fine di un mondo: la Merry England, rappresentata da un'allegra brigata di “favoriti della luna”, ossia di ladri. Ma a differenza della cadaverica pseudoaristocrazia americana, il mondo di Falstaff è chiaramente quello in cui Welles avrebbe amato vivere. Falstaff è l’ultimo esempio sia pur degenerato degli ideali cavallereschi, un dolceamaro Don Chisciotte che crede solo alla fedeltà in amicizia. E quando nel tumulto della battaglia cerca solo un cantuccio per scolarsi l’ennesima bottiglia, nasce il sospetto che con l’avvento dei tempi moderni, la viltà possa essere, a volte, l’ultima, patetica maschera del coraggio e della generosità.

STORIA IMMORTALE (UNE HISTOIRE IMMORTELLE, 1968)
Quasi trent’anni dopo Quarto potere, ancora un uomo solo, nella sua villa sontuosa, tra lignee scale a chiocciola, gallerie di riflessi, cancelli da “non oltrepassare” ed Erik Satie in sordina: Macao, secondo Welles e Karen Blixen. Prodotto dalla televisione francese, è il primo film a colori del regista, qui nei panni di un ricco mercante: prima di esalare l’ultimo “Rosebud” vuol dar vita a una leggenda di marinai. Ma la materia di cui sono fatti i sogni si rivela argilla: nomen omen, il falso demiurgo ricorderebbe di chiamarsi Clay, se osasse ancora guardarsi allo specchio. Calare la fantasia nella realtà affinché sia registrata in eterno, come un atto notarile, come un film: falsificazione geniale e miserabile.

F PER FALSO (F FOR FAKE / VERITES ET MENSONGES, 1974)
Strano vero-falso documentario, a suo modo precursore del mockumentary: immagini d’archivio, considerazioni su Howard Hughes e sulla finta autobiografia scritta da Clifford Irving, un reportage di Reichenbach sul falsario Elmyr De Hory, numeri di magia. E un monologo davanti alla Cattedrale di Chartres, esempio supremo di arte senza autore.

FILMING “OTHELLO”, 1979
Raro esempio di making of d’autore. Welles medita sull’arte del montaggio ricordando le riprese di Otello: il lavoro interrotto continuamente, gli attori non più disponibili, Otello che passa da un palazzo veneziano a una piazza marocchina parlando con Iago, ossia una controfigura incappucciata. Mancano i costumi per l’assassinio di Rodrigo e la scena è improvvisata in un bagno turco, ricoprendo gli attori con asciugamani.


domenica 12 ottobre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

X — LA PETITE MORT

Senza di me la Transilvania sarebbe altrettanto eccitante quanto Bucarest il lunedì sera.
Il conte Dracula (George Hamilton) in Amore al primo morso (Stan Dragoti, 1979).

Oggi nuova variazione tecnica: immagini e suoni non sono stati adulterati, ma questo minuto vampiresco è un montaggio. Qualche secondo di qua, qualche altro di là. In mezzo a questi spezzoni, invisibile allo specchio, si nasconde la soluzione: sarà ricompensata con due sesterzi.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio e possono essere consultate qui. Il gioco si svolge anche in terra sconsacrata.

AGGIORNAMENTO (mercoledì 15 ottobre): Non avevo promesso indizi. Se ne trovano già a sufficienza: nel titolo del post e nei commenti qui sotto. Aggiungessi altro, dovrei ridurre di altrettanto la posta. Visti i tempi che corrono (espressione demenziale: cos'altro dovrebbero fare, quei bastardi? le belle statuine?), un misero sesterzio ti basterebbe appena ad acquistare mezza Islanda. Poi ti voglio vedere, a pronunciare quei nomi di città. Meglio la Transilvania, no?




LA PARTITA SI È CONCLUSA SENZA VINCITORI.
IL FILM DA TROVARE ERA KILLING ZOE DI ROGER AVARY.
COL SENNO DI POI, ERA CHIARAMENTE PIÙ DIFFICILE DI QUANTO PENSASSI. PER FARMI PERDONARE, LA
SFIDA DI DOMENICA 19 OTTOBRE SARÀ RINFRESCANTE COME LO ZAMPILLO DI UNA FONTANELLA. STAVOLTA NON HO DUBBI: IL GIOCO VERRÀ RISOLTO ALLA VELOCITÀ DEL FULMINE. PERTANTO VARRÀ SOLTANTO UNA GUALLERA D'ORO.

L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
arcomanno: 5 fiorini.
bianca: 5 fiorini.
andrea: 2 fiorini.
desaparecida: 2 fiorini.
adlimina: 1 fiorino.

giovedì 9 ottobre 2008

On the wrong side of the road

Da soli si può andare in giro; in due si va sempre da qualche parte.
Madeleine (Kim Novak) a Scottie (James Stewart) ne La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock.

BOY DRIVES GIRL



GIRL DRIVES BOY


mercoledì 8 ottobre 2008

Dacci un Taglio

— Don Lucchesi, lei è un uomo di finanza e di politica. Io queste cose non le capisco.
— Le pistole le capisci?
— Sì.
— La finanza è una pistola. La politica è sapere quando devi premere il grilletto.
Vincent Mancini (Andy Garcia) e Don Lucchesi (Enzo Robutti) nel Padrino — Parte III (Francis Ford Coppola, 1990).

lunedì 6 ottobre 2008

Panni sporchi

— The film is like a battleground.
— I film sono come una battaglia.
— Yes. Love.
— L’amore…
— Hate.
— L’odio…
— Action.
— L’azione…
— Violence.
— La violenza…
— Death.
— E la morte.
— In one word: emotions.
— In una sola parola, l’emozione.
Il regista americano Samuel Fuller e la sua interprete nel Bandito delle undici (Pierrot le fou, 1965) di Jean-Luc Godard.

Nei film polizieschi, spesso e malvolentieri, il poliziotto ha una vita privata. Una moglie, di solito. Quella del tenente Colombo fortunatamente non si vede mai. Ma è una piacevole eccezione.
Tra sparatorie, indagini e minacce della gerarchia (molto tempo fa: "se non risolvi questo caso entro 24 ore passerai il resto della tua carriera sommerso dalle scartoffie"; poi era alla moda la bolgia stradale, e quindi: "finirai a regolare il traffico"; ora non so più quale sia il trito inferno del distintivo), il riposo del guerriero si svolge tra le quattro pareti domestiche. Credo che l'intento sia di dimostrare che l'eroe del film è un uomo come noi, con i suoi crucci e cruccetti coniugali. Identificazione al ribasso, suppongo anche nella speranza di interessare il pubblico femminile, secondo le indagini di mercato.
Solitamente si litiga, a casa del poliziotto: non mi porti mai in vacanza, al ristorante, alla sfilata di costumi brasiliani, frigna lei. Mentre io mi annoio mortalmente, e aspetto solo che ricominci a crepitare il Badabing! (espressione usata da Sonny Corleone nel Padrino: e mentre l'indice si avvicina alla tempia del fratello Michael, il pollice imita il cane della pistola: è per questo che il locale di Tony Soprano si chiama "Bada Bing", vabbé, chiusa la parentesi filologica, torniamo alle crisi di coppia). La noia diventa imbarazzo quando lei, puntuale come un orologio svizzero: "Sapresti dire quand’è stata l’ultima volta che abbiamo fatto l’amore?!". Nella tastiera dello sceneggiatore, dev'essere una frase preimpostata, la funzione "F4" che in Boris prescrive sistematicamente agli attori degli "Occhi del cuore" un'espressione "basita".
Un regista come Michael Mann ha passato l'intera carriera a cercare di giustificare queste indigeste tranches de vie, noncurante dei moniti hitchcockiani ("Certains films sont des tranches de vie. Les miens sont des tranches de gâteau" diceva sir Alfred a Truffe). Credo che abbia sempre fallito: Heat dura tre ore solo a causa di questa presunzione psicologica. Un'ora di meno e sarebbe stato molto meglio.


Ho cercato nella memoria, e mi son venuti in mente solo due polizieschi dove l'operazione "family life" funziona. Ce ne saranno certamente altri, ma sono sicuro che il numero resti alquanto ridotto.
In ambedue i film stiamo parlando di sequenze (due per ciascuno) di durata ridotta, ma la cui intensità resta a mio avviso ineguagliata.
Il primo è Il grande caldo (The Big Heat, 1953), forse il capolavoro americano di Fritz Lang. Quando Lang fuggì dalla Germania nazista per andare in California (con tappa a Parigi), la prima cosa che scoprì fu che gli americani non sapevano cosa fosse un superuomo, a parte quello che si infila la calzamaglia azzurra nella cabina telefonica. Per loro l'eroe cinematografico era l'uomo qualunque, magari un benzinaio di nome Joe Wilson, che mastica noccioline e ha la faccia bonaria di Spencer Tracy (mio padre, calabrese, lo chiamava "spingi e trase", ma questa è un'altra storia). Insomma, non avevano letto Nietzsche. Ma non per questo passavano il tempo a stirare le camicie: avevano inventato Hollywood, mica balle. Lang era abituato a esser trattato come un imperatore: super-produzioni piene di mefistofelici Mabuse e Sigfridi alle prese con "temi forti" e architetture colossali, tra passati leggendari e dubbie Weltanschauung dell'avvenire. A Los Angeles invece aveva a disposizione i budget dei b-movie e l'obbligo contrattuale di non star lì a menarla. In altri termini, doveva smettere di essere un genio, e cominciare a essere intelligente. È un'impresa difficilissima, e non solo al cinema. Lui ci riuscì (fin dal suo primo film americano, Furia, 1936, appunto con Spencer Tracy-Joe Wilson). E ci riuscì meglio di altri indigeni, proprio perché per Lang la nozione di "uomo medio" era tutt'altro che naturale. John Doe non si dava in sé: andava osservato, pensato e ricostruito sullo schermo, come un'idea.
Il sergente Dave Bannion è il John Doe del Grande caldo. Ha il volto poco espressivo ma simpatico di Glenn Ford, una moglie, una figlia e un caso da risolvere (il suicidio di un collega). Detta così, sembra una vita disordinata, ma Bannion fa il funzionario, e fino a un certo punto del film riesce a svolgere correttamente il proprio mestiere, ossia a far sì che le cose funzionino.


Lei dice "We're just used to you"; pochi secondi dopo lui sentenzia: "The perfect marriage". La vita piccoloborghese è fatta di passioni abitudinarie.

Almeno finché dura: il secondo film è stato girato più di trent'anni dopo. Pochi ricordano che, per quasi un decennio, Michael Cimino fu il più gran regista della sua generazione. Il cacciatore è il miglior film sul Vietnam perché racconta quel che il cinema non aveva mai raccontato prima, almeno che io sappia: cosa fa una guerra (quella guerra) non nella mente degli essere umani in generale, ma al proletariato, e più particolarmente all'operaio in fonderia (d'origine russa, oltretutto, e in piena guerra fredda). Cimino era un regista geniale; ma era anche e soprattutto un uomo intelligente. Dopo Il cacciatore, girò I cancelli del cielo (se vuoi fartene un'idea, dopo vatti pure a vedere quattro sequenze): e la sua carriera fu stroncata. L'America è l'unico Paese dove puoi dire e fare quel che vuoi, almeno così pare. Persino sputare sulla bandiera a stelle e strisce: puoi fare anche quello. Ma stai sicuro che non te lo perdoneranno mai.
L'anno del dragone (Year of the Dragon, 1985) è un film diseguale: Cimino non lavorava da cinque anni, dopo il fiasco catastrofico dei Cancelli del cielo. Ma senza quel film, senza quell'assalto al ristorante distrutto a raffiche di mitra da due sicari di Chinatown, il nuovo action-movie di Hong Kong non sarebbe mai nato. Senza L'anno del dragone, niente The Killer (e il vero, grosso e grasso capolavoro di John Woo, Bullet in the Head, è uno sfacciato plagio del Cacciatore).
Nel cinema poliziesco, le scene di famiglia sono una pizza mortale. Nell'Anno del dragone ce ne sono due: e sono la cosa più bella di tutto il film.


Certo, è una scena pesante, ben diversa dal tono pacifico e conciliante di Lang: lì Bannion legge il giornale, poi si alza e aiuta ad apparecchiare la tavola, in un appartamento accogliente e aperto (cucina americana); qui il capitano Stanley White attraversa un pezzo d'America in cui il melting pot è già esploso in ghetti etnici, tra il suo quartiere polacco e la brulicante Chinatown che vuole "ripulire". La classe operaia ha attraversato il Vietnam, e ora "The World is Yours" di Scarface è stato sostituito dal cartello "No Dumping" con cui si apre la scena che vedrai fra poco. Il tinello cosy dei Bannion, perfettamente organizzato dall'architetto di formazione Lang come spazio ideale (ma senza darlo troppo a vedere, altrimenti i produttori si incazzano) qui diventa una cucina sporchissima, con al centro una lavatrice rotta. (Forse è un simbolo: un giorno lessi da qualche parte che i sociologi moderni tendono a considerare che una coppia è "stabile" a partire dall'acquisto della lavatrice.) Se i Bannion bevono dallo stesso bicchiere di birra e alludono ad altri "scambi", Stanley White beve dalla lattina, solo, e la fraseologia erotica è ridotta alla crudezza dell'orologio biologico, tra un "hai perso il tiro al bersaglio" e il rimprovero di non "scopare nei giorni giusti del mese". Senza figli, la coppia White vive sotto la spada di Damocle dell'ovulazione: in crisi d'astenia, ancor più che d'astinenza, muore letteralmente per carenza di vitamine. "I dolori sono beni personali. Chi ha troppi beni diventa un oggetto" diceva il narratore ne La forza dei sentimenti (Alexander Kluge, 1983). Non si può dire che i personaggi di Cimino siano ricchi, anzi. I beni sono ridotti all'essenziale. Ma persino un'esistenza ridotta ai generi di prima necessità non ti salva dalla rivolta degli oggetti. E così, alla fine della scena, lo spazio domestico si chiude sulla solitudine di Stanley, imprigionato in una cucina che, letteralmente, esplode.
Occhio alle analogie, però: in ambedue i casi, l'ossessione della verosimiglianza sociale, dalla precisione del golfino di Bannion e del grembiule della moglie ai pantaloni sformati e all'assenza di trucco di Connie White. Infine, è essenziale il riferimento alle condizioni lavorative ed economiche delle due coppie, dal costo di una bistecca ai turni di notte dell'infermiera. Se il poliziotto vive in una splendida villa la cui parete è stata sostituita da una vetrata con vista sull'oceano, non funziona. Son cose che Michael Mann non capirà mai. Ne capirà altre, ma se vuoi riuscire simili scene, sei obbligato ad accettare questo dubbio postulato: la realtà esiste.

La sequenza di Cimino si chiude con un bacio, altrimenti non ci sarebbe un seguito. E invece un seguito c'è sempre: come dire che al peggio non c'è mai fine. Infatti, torniamo a Lang. Seconda scena.



Jean-Patrick Manchette ha scritto quattro righe, su quel che hai appena visto. Forse non ricordava con precisione il film, ma siccome dove passa Manchette non cresce più l'erba, non ho altro da aggiungere:

Stavolta, invece di ipnotizzarvi come al solito sul momento della sigaretta o su quello della caffettiera bollente, guardate piuttosto come pazzi il modo in cui Fritz Lang inquadra durante i cinquanta secondi che precedono l’esplosione dell’automobile, la scena in cui Glenn Ford e sua moglie dicono buonanotte alla figlia, quella piccola correzione d’inquadratura, sembra che serva ad avvicinarsi a Glenn Ford, non sappiamo che serve ad avvicinarsi alla finestra oscura, è come se Lang ci dicesse che avremmo potuto prevedere, ma che non prevediamo mai. È terribile.
Jean-Patrick Manchette, “Charlie hebdo”, n° 483, 13 febbraio 1980 (ora in Les Yeux de la momie, Rivages / Ecrits noirs, Paris 1997, p. 157).


Cimino, adesso (attento, a scanso di equivoci è roba tosta):



Come avrai notato, stavolta le similitudini superano le differenze. Questo non significa obbligatoriamente che Cimino abbia voluto rendere un omaggio deliberato a Lang. Penso piuttosto che quando due registi intelligenti si trovano ad affrontare la stessa, difficile scena, è facile che giungano alla stessa conclusione: a un certo punto, l'automobile deve saltare per aria.
Non sto dicendo che in un film poliziesco la vita privata deve essere evocata solo se e in quanto essa serve l'azione. Quello è l'abc, e lo rispettano anche sceneggiatori e registi pezzenti, è il canovaccio-base del genere: "un poliziotto buono diventa cattivo perché gli hanno ammazzato la moglie, il caro collega o il canarino". No, qui il punto è un altro. Si tratta di far scoppiare la violenza esterna come conseguenza naturale e inevitabile della violenza interna. Se proprio vuoi, chiamalo fato: nel primo caso, l'intollerabile felicità in carne e ossa della famiglia modello, la passione della normalità; nel secondo, una rottura di tutto: cose, coppia, uomo, donna.
A proposito di donna. Avere a disposizione un'attrice capace di dire "Te ne vuoi andare adesso, prima che mi metta a piangere? Non voglio che accada. Non davanti a te. Ho il mio orgoglio" e subito dopo di scoppiare in lacrime come un vitello, be', un po' aiuta. Aiuta anche a sgozzarla, sempre come un vitello, un secondo dopo. Douglas Sirk diceva che il cinema è "lacrime e velocità". Come dire: lacrime e sangue. A motion picture / emotion picture, per tornare a Fuller e a Godard.

domenica 5 ottobre 2008

L'ultimo gioco in città (LE SCOMMESSE SONO CHIUSE)

IX — PERCHÉ IL PAPA NON È RE (E SE FOSSE RE...)

Fare schifo, in una società che obbliga all’eccellenza, è un preciso dovere morale.
Didascalia finale del cortometraggio Fare schifo sul sito “SantaMariaVideo — La tv che non trasmette niente”.



Oggi la soluzione sarà ricompensata con tre fiorini. Se non avrai trovato, mercoledì allargherò la prospettiva. Ma da quel momento avrai solo due fiorini: rischi di ritrovarti senza carta igienica.
P.S.: Ti ricordo che le regole de L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ™ sono depositate presso il notaio e possono essere consultate qui. Il gioco si svolge anche sottoterra.



ATTENZIONE: LA PARTITA SI È CONCLUSA LUNEDÌ 3 OTTOBRE ALLE 23.51.
LA VINCITRICE È L'OSCURA BIANCA, CHE SI CATAPULTA IN TESTA ALLA GRADUATORIA, EX-AEQUO CON IL RUGGENTE ARCOMANNO: SE NON È DI CULTURA GIAPPONESE, IL LUTTO NON LE SI ADDICE (E DEL RESTO CREDO CHE ELETTRA NON SIA NATA A TOKYO). NONDIMENO, NEL TEMPIO DOVE È ALLESTITO L'ALTRO TAVOLO DA GIOCO, C'È CHI SI INTERROGA, APPOLLAIATO SUL CAPITELLO DELLA COLONNA SINISTRA, QUARTA PISTA.
LA PROSSIMA SFIDA SI TERRÀ DOMENICA 12 OTTOBRE. IL VINCITORE OTTERRÀ DUE SESTERZI.


L'ULTIMO GIOCO IN CITTÀ.
GRADUATORIA
arcomanno: 5 fiorini.
bianca: 5 fiorini
.
andrea: 2 fiorini.
desaparecida: 2 fiorini.
adlimina: 1 fiorino.

venerdì 3 ottobre 2008

Dacci un Taglio

— Cicolini: un numero da uno a dieci?
— Undici!
— Esatto!
Rufus T. Firefly (Groucho Marx) e Cicolini (Chico Marx) ne La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck Soup, 1933) di Leo McCarey.

giovedì 2 ottobre 2008